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Massimiliano Gallo Io, Marinella e la regia

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Esordio convincente alla regia per l’attore napoletano che prima di provarci ha studiato la macchina da presa e tutti i registi che lo hanno diretto per acquisire capacità e consapevolezza del ruolo

Era da un po’ di tempo che Massimiliano Gallo meditava di fare il gran passo sedendosi, come si suol dire, dietro la macchina da presa. Il suo esordio alla regia è avvenuto con un lavoro di qualità, possiamo azzardare scenograficamente con il botto.

L’attore, che da tempo si era già cimentato con il ruolo di regista al teatro, ha voluto mettersi alla prova realizzando un docufilm sulla storia della famiglia Marinella che ha rappresentato il trait d’union per parlare della città vista attraverso la vetrina che guarda il mare che il fondatore della casa, Eugenio Marinella, realizzò proprio in quella posizione con il preciso intento di dare a tutti una lettura inossidabile della città.

La prima domanda per Massimiliano Gallo è d’obbligo: che passaggio è stato per te sederti dietro la macchina da presa?

«Si è trattato di un passaggio consapevole perché credo che, se cimentarsi in nuove attività lo si faccia senza forzature, alla fine non ci siano traumi né salti nel vuoto. Era da una vita che stando sui set cercavo per la mia naturale curiosità di capire come funzionava la macchina con tutto quello che ne consegue. Ed ho sempre cercato di approfondire il linguaggio che ogni regista portava nel suo lavoro per dedicarmi, quando sarebbe stato possibile, a questo cimento consapevolmente».

Da un po’ di tempo viene utilizzata molto la formula del docufilm per raccontare storie. Qual è la ragione?

«Personalmente ho voluto iniziare con un docufilm perché mi sembrava meno complicato, anche se la sceneggiatura scritta da Francesco Pinto era abbastanza complessa. Credo che il successo di questa formula sia dovuto ad una serie di fattori. Ha una durata giusta, trattandosi abitualmente di un’ora che per lo spettatore significa tenere alta l’attenzione. Molto spesso racconta storie che non sono note al grande pubblico, andando più in profondità durante lo svolgimento del racconto. E poi unisce la parte filmica, che accresce tantissimo alla parte emozionale del racconto. Un esempio per tutti: la parte in cui Nunzia Schiano parla del lavoro di camiciaia crea un’emozione e racconta compiutamente quello che avveniva nel laboratorio creato da Marinella, che alla fine diventa il miglior spot che si potesse immaginare e poi realizzare per la storia stessa, tenuto conto che Nunzia sembra appartenere davvero a quel mondo».

Immagini bellissime, storie coinvolgenti che procurano una forte emozione. Quanto è stato complicato metterle insieme visto che il risultato finale mostra un’evidente armonia?

«Abbiamo fatto un sforzo significativo per ricostruire le scene che rimandavano alla Napoli di inizio secolo scorso. Abbiamo cercato di dare un’immagine della città capitale europea della cultura che le spetta. Una Napoli molto elegante, viva, interessante senza omettere racconti di momenti brutti che la città ha attraversato. Abbiamo anche fatto uno sforzo economico notevole con l’acquisto dei filmati d’epoca dell’Istituto Luce perché volevamo rendere in immagini, io per primo, quello che Maurizio ci ha raccontato. Abbiamo pensato che sarebbe stato giusto trasmettere allo spettatore l’immagine di un’azienda diventata internazionale ma rimasta una sorta di famiglia allargata, che ho cercato di rendere per esempio con quella carrellata sulle signore che lavorano da Marinella. Si tratta in fondo di una storia che racconta la forza di queste famiglie italiane che rappresentano la spina dorsale del nostro paese».

Parliamo del tuo intervento sul caffè. Hai scelto un tema caro ai napoletani per parlare delle nostre abitudini e credo che il ricordo dell’intervento di Eduardo sull’argomento ti sarà stato d’aiuto. È stato un modo anche per trasmettere a chi non la conosce il valore della napoletanità?

«Mi piace sempre raccontare ad ogni occasione la particolarità della nostra città, che non disdegna di farsi contaminare ma riesce poi a sua volta a contaminare quello che fa diventare suo. Al di là del caffè e della “cocumella” di cui parlo nel docufilm mi viene in mente che per esempio a piazza Garibaldi vendono il kebab con lo sfilatino, cosa che non accade da nessun’altra parte. È un esempio più moderno rispetto al caffè ma il punto d’arrivo è simile. Il napoletano si lascia contaminare ma poi restituisce al mondo qualcosa modificandolo, che riesce appunto a trasmettere il nostro modo di essere. Tutto questo senza perdere la nostra antica identità che conserviamo gelosamente ed orgogliosamente».

La storia della famiglia Marinella è anche la storia di un’idea, di un sogno. Oggi il marchio è conosciuto nel mondo, eppure il proprietario ha voluto mantenere un profilo basso evitando l’abituale e contemporaneo gigantismo. Si può dire che questa impostazione alla fine abbia contribuito al successo della maison?

«Credo di sì, perché questo marchio ha il suo valore per come è stato gestito nel tempo. Il prodotto è indiscutibile ma va aggiunto che, come dice Maurizio, comprare una cravatta Marinella significa acquistare un’esperienza, una relazione. Si tratta di valori difficilmente trasmissibili con un franchising perché fanno parte di un modo di essere non esportabile. Penso che la bellezza e la forza di quest’azienda risieda nella scelta che l’ha portata a non preoccuparsi di raggiungere tutti, curando il proprio brand nei veri particolari che contano».

Massimiliano Gallo, mentre parliamo, è a Torino in tournée a teatro con Il silenzio grande. Poi ha molti programmi dei quali scaramanticamente evitiamo di parlare, tranne che per l’avvocato Malinconico, la fiction tratta dai romanzi di Diego De Silva già pronta, che la Rai trasmetterà ad ottobre e che gli permette di lasciarci con una battuta ed un sorriso: sarà un Malinconico autunno.